L’Europa non è un posto per donne, ammesso che ce ne sia uno, al mondo, che il nostro non sia persino uno dei migliori posti possibili.
A settembre scorso, Rainews[1] ha pubblicato gli ultimi dati ufficiali contenuti nei database di Eurostat (già vecchi, risalenti a tre anni fa) sui femminicidi: nel 2019 in Europa sono state uccise 1.421 donne, in media quattro al giorno, una ogni sei ore: 285 in Francia, 276 in Germania, 126 in Spagna e 111 in Italia. Un bollettino di guerra, ancora più sanguinoso se si considera il dato per centomila abitanti, cioè non solo il numero assoluto di donne ammazzate, ma il suo rapporto con la popolazione: una strage. I femminicidi sono stati nel 2019 4,06 su centomila abitanti in Lettonia, 2,23 a Cipro, 1,59 in Montenegro, 1,47 in Lituania, 1,24 a Malta, 1,07 in Finlandia, 0,93 in Danimarca, 0,91 in Albania, 0,89 in Bulgaria e in Austria, tutti Paesi in cui, peraltro, oltre la metà degli omicidi volontari nel 2019 erano femminicidi (l’80% a Malta, il 67% a Cipro, il 62% in Lettonia, il 57% in Norvegia, solo per citare qualche dato).
Le donne si uccidono, di più nei Paesi piccoli e a sud-est, forse, ma si uccidono ovunque, in Europa. E in tutte le lingue Europee esiste la parola femminicidio, ancorché da più parti si discuta ancora sul bisogno di un termine ad hoc per parlare di donne ammazzate: perché non basta dire “omicidio”? Perché uccidere una donna sarebbe portatore di un universo di senso aggiuntivo, su cui soffermarsi?
Femminicidio: traduzione dell’Inglese feminicide, reso popolare da due femministe e attiviste, Radford e Russell, e dal loro saggio del 1992, Femicide - The Politics of Woman Killing, tentativo di dare significazione politica all’uccisione di una donna in quanto donna. In quanto come tale portatrice di doveri atavici, incarnazione di stereotipi (in primis, l’obbedienza e il sacrificio) cui non deve sottrarsi, perché altro rispetto all’uno, secondo sesso, a 70 anni dal libro di de Beauvoir, ancora come condanna, carattere ascritto che divora tutti gli sforzi che mai potrai fare, perché nessuno dice di Einstein “scienziato uomo”, ma Levi Montalcini o Hack restano “scienziate donne”. E ucciderne una (che ti ha lasciato/vuole lasciarti, che non ti obbedisce, che cerca di esistere come sé) è atto politico, monito per le altre, magari, perché The Handmaid’s Tale è sempre dietro l’angolo, tra fertility day e vestiti rosa da ballerina, mentre Valentino Rossi dice che sua figlia non potrà mai vincere il moto GP, perché è “una femminuccia”. Non è nemmeno nata, ma lui sa già cosa potrà (e non potrà) mai fare.
E così, a storie come quella di Saman, inghiottita a pezzi dalle campagne di Novellara appena maggiorenne per aver rifiutato un matrimonio combinato, è vero, ma fatta a pezzi dai suoi consanguinei Pakistani, da “estranei”, dunque, portatori di culture/religioni/usanze “altre”, si sommano tante storie di italiane, tedesche, francesi, senza origini esotiche, per le quali non ci sono rassicuranti scuse su invitte tradizioni barbare, ma solo l’incapacità di venire a patti con qualcuno che non è meno di te, che può scegliere come te, e magari volere gli stessi diritti non solo sulla carta, magari non accettare più che tutti i cittadini siano uguali, ma quelli maschi più uguali degli altri. Tanto più insopportabile ardire, quanto più l’eguaglianza sia sancita, come i dati sulla civilissima Scandinavia mostrano, o il fatto che il termine femizid compaia tanto sui media tedeschi, malgrado i sedici gloriosi anni di cancellierato Merkel.
Servono strutture per accogliere chi denuncia, certo: l’Unione Europea raccomanda un Centro antiviolenza ogni 10.000 persone e un centro d’emergenza ogni 50.000 abitanti, ma è una raccomandazione che quasi nessuno ascolta: in Italia dovrebbero esserci 5.700 posti letto e ce ne sono solo 500, la Germania ne ha 2000 più della Francia (7000 in tutto), ma i centri sono pieni e non possono accogliere nuove ospiti. Che restano là fuori, e in molti casi rischiano la vita.
Ma forse – magari di più, perché il vaccino è la cura più efficace, sempre – servirebbe una generalizzata ed obbligatoria educazione al rispetto dell’altro in quanto persona imposta a chiunque dall’asilo nido in avanti, l’abolizione delle parole “mio” e “per sempre” dal vocabolario di ciascuno, ché la reificazione passa per il dizionario, e tanti assassini (quasi tutti) erano mariti/compagni/amanti delle loro vittime. Imparare che chiunque è quello che è perché è fatto così, e non perché è maschio o femmina. Che chiunque appartiene solo a sé stesso. Che si può essere compagni di viaggio, ma nessuno è la nostra valigia, per cui può andarsene, se (e quando) vuole. Che nessuno ce lo "ruba", che se ne va se lo sceglie. Così come SCEGLIE di restare.
A cura di Silvia Decimo, student* SCOPSI, Università di Bari “Aldo Moro”
[1] Rainews, 11/9/2021: http://www.rainews.it/archivio-rainews/articoli/Eurostat-femminicidi-in-Ue-uno-ogni-6-ore-1656f27a-0647-4544-8bb1-2861fda9b2cf.html